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li Carusi
(li Ragazzi delle miniere)
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     'Carusi' è una parola siciliana il cui significato è 'bambini'. Deriva dalla parola latina "carus" che significa "caro" e può essere tradotto come "cari piccoli".

 

'Carusi' è plurale. La forma maschile singolare è 'carusu' (in italiano, 'caruso'), quella femminile è 'carusa'. In volgare, come lo usava mia madre, significava semplicemente 'bambini', e spesso veniva abbreviato in 'carú', come in "Carú', divertiti!!" ("Bambini, divertitevi!").

 

     Ma in Sicilia, nell'Ottocento e all'inizio del Novecento, la parola 'carusu' aveva un significato ben più inquietante e tragico. Era usato per indicare li ragazzi che in tenera età erano costretti dalle circostanze a lavorare nelle miniere che all'epoca producevano una delle più grandi risorse della Sicilia: lo zolfo.

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     Sopra ci sono li documenti di nascita di mio padre, che identificano suo padre Gaetano Coniglio come uno 'zolfaio' (minatore di zolfo), e della madre di Joe Di Leo, che mostra che suo padre Giuseppe Licata era uno 'zolfataro' (una variazione della stessa parola). Anche mio fratello maggiore Guy è nato in Sicilia, nel 1913, e dal suo atto di nascita risulta che l'occupazione dei nostri padri era 'zolfataio'.

      Mio padre Gaetano e tutti li miei antenati paterni erano originari del paese di Serradifalco, nella Sicilia centrale, in provincia di Caltanissetta. Il nonno materno di Joe era del paese di Montedoro, a due passi da Serradifalco. Mio padre e mio nonno, così come il nonno di Joe, lavoravano nelle miniere di zolfo locali, forse la stessa, anche se c'erano miniere sia a Serradifalco che a Montedoro.

      La parola siciliana per zolfo è 'zurfaru'; la parola per miniera di zolfo è 'zurfàra'; e gli operai sono 'zurfarari'.
 

      A farmi conoscere i carusi e la loro storia è stato il signor Pietro Petix, raffigurato sopra all'ingresso dell'ex zolfara di Montedoro. Ci ha anche fatto visitare il Musèu di la zurfàra (Museo della Solfara, in italiano), il Museo cittadino della Miniera di Zolfo. Vicino all'ingresso del museo si trova un bassorilievo che rappresenta l'apprensione di familiari e amici in attesa del ritorno degli operai dalla miniera.

 

 

     A causa della nostra eredità, nel 2019 a me e Joe è stato chiesto di presentare un discorso sui carusi della Sicilia. Nel prepararci per la presentazione, entrambi abbiamo appreso dettagli illuminanti ma che fanno riflettere su questi "ragazzi delle miniere". Questa pagina riflette li pensieri miei e di Joe dopo la nostra ricerca sulla pratica diffusa.

 

 

 

Lo zolfo (S) è un elemento, numero atomico 16.
È stato utilizzato dall'uomo fin dalla preistoria.

     Lo zolfo è uno degli elementi più comuni nell'universo e molto comune sulla Terra. A volte si trova nella sua forma pura come cristalli giallo-verdastri. Più comunemente, si trova nei composti dello zolfo all'interno dei minerali rocciosi. Era conosciuto e utilizzato nell'antichità in India, Cina, Egitto, Grecia e Roma.

     È menzionato nella Bibbia come “brimstone”, che significa “pietra ardente”.

     Oggi quasi tutto lo zolfo viene prodotto mediante il processo "Frasch", come sottoprodotto quando li contaminanti contenenti zolfo vengono rimossi dal gas naturale e dal petrolio.

 

      Lo zolfo si trova naturalmente nelle aree vulcaniche. La Sicilia è essenzialmente un vulcano con la testa che sporge dal Mar Mediterraneo. In Sicilia abbondano molti minerali vulcanici e, oltre allo zolfo, le sue miniere includono sale e potassa. Non esiste un’industria manifatturiera al mondo che possa funzionare senza zolfo. Quando ebbe luogo la rivoluzione industriale, nel 1800, il 90% di tutto lo zolfo nel mondo proveniva dalla Sicilia. Le miniere di zolfo erano generalmente localizzate nella regione centro interna che si estendeva da Castrogiovanni (Enna) a Girgenti (Agrigento). Comprende quelli di Lercara Friddi in provincia di Palermo; Provincia di Caltanissetta a Montedoro e Serradifalco (Apaforte & Stincone); e la miniera di Grottacalda in provincia di Enna.

Lo zolfo era, ed è tuttora, utilizzato per una varietà di prodotti, tra cui pomate e unguenti medicinali, gomma vulcanizzata, fertilizzanti e il prodotto chimico industriale più ampiamente prodotto, l'acido solforico. Ma la sua maggiore attrazione per le nazioni europee durante il fiorente periodo della “guerra moderna” fu il suo utilizzo critico nella produzione di esplosivi.
 
Scrive la blogger Santina Lazzara: “L’apertura ‘moderna’ delle miniere di zolfo siciliane nel 1802 fu effettuata dagli inglesi durante le guerre napoleoniche. Era caratterizzato dallo sfruttamento della manodopera, a dir poco selvaggio e disumano. Tuttavia molti braccianti abbandonarono le grandi proprietà, tanta era la povertà in cui faticavano in quel settore”.

 

Molti dei resoconti contenuti in questa presentazione provengono da descrizioni sulla scena di John L. Stoddard in questo libro dell'anno 1898.

Per citare Stoddard, “Ripidi gradini scavati nella roccia scendono a profondità nelle quali il calore assomiglia a quello di una fornace. . . . . “

      Stoddard affermò inoltre di "non avere il coraggio di guardare alla miseria che una discesa in quegli inferni avrebbe certamente rivelato".

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Allison Scola ha pubblicato quanto segue in "Experience Sicily":

La storia dell'industria estrattiva dello zolfo, attiva fin dall'antichità e molto redditizia per li proprietari, è oscura. Le miniere di zolfo erano luoghi crudeli. Per sei giorni alla settimana, spesso 12 ore al giorno, uomini e ragazzi terribilmente pagati lavoravano duramente. Le temperature nei tunnel sotterranei e stretti si aggiravano intorno ai 50 °C con un'umidità molto elevata. Di conseguenza, li minatori lavoravano nudi, con forse solo un piccolo grembiule che copriva li loro genitali. Venivano impiegati ragazzi, detti carusi, perché la loro stazza permetteva loro di muoversi più facilmente attraverso gli stretti pozzi.

Gli uomini erano chiamati picuneri (italiano 'picconiere').
 


     I ragazzi si chiamavano carusi.
 

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Come sono stati selezionati i carusi? In generale, in tre modi, tutti legati alla povertà assoluta delle famiglie comuni siciliane.

 

1) ABBANDONI: Nel 1800 si registrarono numerosi abbandoni infantili. Questi bambini venivano lasciati nelle "ruote dei trovatelli" della comunità, da cui sarebbero stati mandati negli ospizi. Amministratori senza scrupoli spesso “consegnavano” (vendevano) li ragazzi ai funzionari delle miniere o a singoli selezionatori.

2) SUCCURSU DI MURTI: Molte famiglie erano così povere da non poter mantenere tutti li loro figli. Sarebbero stati costretti a prendere un “succursu di murti” per uno dei loro figli. Si trattava essenzialmente di una polizza di assicurazione sulla vita pagata in anticipo, in cui il proprietario di una miniera o un raccoglitore pagava una somma forfettaria ai genitori e poi vincolava il bambino come carusu. Il ragazzo è stato costretto a lavorare nella miniera fino alla restituzione del beneficio, cosa che, date le circostanze, accadeva raramente. A volte li ragazzi ricevevano un magro stipendio che potevano applicare per saldare il loro debito.

3) IMPRESE FAMILIARI: A volte un raccoglitore portava li propri figli o nipoti in miniera per fungere da carusi, risparmiandogli il costo del pagamento dei suoi ragazzi della miniera.

 

 

Sebbene li portatori di zolfo fossero chiamati carusi e iniziassero il loro contratto da bambini, molti trascorsero l'intera vita in quello condizione. (Questo modello si trova nel Museo della Miniera di Zolfo di Montedoro)

Nel 1910, il medico britannico Sir Thomas Oliver scrisse un articolo per il British Medical Journal intitolato "I minatori di zolfo della Sicilia: il loro lavoro, malattie e assicurazione contro gli infortuni". Rimase “colpito dalla bassa statura e dallo sviluppo difettoso degli uomini che trasportano il minerale sulle spalle. Alcuni degli uomini che ho misurato, sebbene di età pari o superiore a 30 anni, erano alti solo 4 piedi e, nello sviluppo mentale, erano come bambini."
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Osservò: “questi uomini sono così piccoli di statura, e così deformi fisicamente, che il governo difficilmente potrebbe ottenere coscritti per l’esercito in un distretto minerario di zolfo”.

Oliver continuò:

"Il minerale raccolto dagli uomini viene trasportato a spalla da ragazzi scalzi e poco vestiti su per li gradini ripidi e logori che portano in superficie. Poiché a questi carusi non sempre sono fornite luci, li viaggi su e giù vengono effettuati al buio. Molti sono li tristi incidenti accaduti a causa dello scivolamento dei carusi: li ragazzi e il loro carico rotolano giù per li gradini, impigliando nella discesa altri carusi che forse stanno salendo.

"Li carusi sono spesso trattati duramente dai picuneri e dagli uomini in genere. Quelli che lavorano nelle piccole miniere vivono in casa o in alloggi, ma nelle grandi miniere più lontane in campagna li ragazzi sono alloggiati con gli uomini in baracche, le cui finestre durante il giorno sono sbarrate in modo che la luce del sole non entri mai, e le stanze non vengono quasi mai aerate. Nessuna donna è impiegata per badare alle camere o alla biancheria da letto; uomini e ragazzi mangiano insieme in una mensa, il loro cibo viene pane, olio e maccheroni con verdure, fave secche e lenticchie. Gli uomini mangiano carne la domenica, e in quel giorno bevono vino abbondantemente. Tanto sono stanchi li carusi e li picuneri dopo la loro ordinaria giornata di lavoro nelle miniere di campagna lontano dalle attrazioni ordinarie delle città, che si ritirano presto per riposare. Un carusu paga sei pence al giorno per il suo cibo.

I minatori di zolfo lavorano nove ore al giorno [nel 1910]. Li ragazzi possono guadagnare 1 franco al giorno [1 lira, ovvero circa 2,33 euro attuali], o poco più, secondo l'età e la forma fisica; i portatori di uomini 1,80 franchi e li minatori 3 franchi."

Santina Lazzara:
“Questo era sfruttamento coloniale, tutto il ricavato andava all'estero, garantendo l'arricchimento solo ai proprietari terrieri dove furono scoperte le miniere e ai quali fu lasciata la gestione dei lavoratori. Gli operai erano uomini di tutte le età, e soprattutto bambini, li carusi”.

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Joe Di Leo scrive:

Mio nonno materno, Giuseppe Licata, era il maggiore di 9 figli nato nel 1863 a Montedoro, in Sicilia. Dai suoi atti di nascita risulta che l'occupazione del padre Salvatore era quella di zolfataio (minatore di zolfo). Anche Giuseppe divenne zolfataio. Lo so per certo perché, da bambina, mia mamma mi raccontava storie della sua vita da ragazzina in Sicilia. Ricordava di aver camminato fino alla vicina miniera di zolfo portando il pranzo a suo padre. E alla fine della giornata, seduti sui gradini di casa loro ad aspettare che tornasse a casa esausto dopo una lunga giornata in miniera. A quel tempo era sulla trentina e lavorava, come suo padre, come picuneri.

Negli Stati Uniti, quando si cominciò a estrarre il petrolio greggio dalle profondità del sottosuolo, il processo di spaccare del petrolio produsse zolfo come sottoprodotto. Questo era un modo molto più economico e sicuro per ottenere lo zolfo, e così la Sicilia perse il suo monopolio globale. La scritta era sul muro. L’estrazione dello zolfo era in via di estinzione e l’America aveva le braccia aperte per coloro di cui aveva bisogno per scavare i propri fossati, asfaltare le proprie strade, costruire i propri edifici, ecc.

Nel 1906 Giuseppe vede che non c'è speranza né per lui né per la sua famiglia. Alcuni dei suoi fratelli erano già emigrati negli Stati Uniti. Così all'età di 43 anni fece le valigie le sue scarse cose e insieme alla sua famiglia si imbarcò sulla nave a vapore "Sicilian Prince" e salpò per l'America. Dopo 14 giorni di viaggio in terza classe arrivarono a New York City nel mese di febbraio. Li bambini piangevano che faceva troppo freddo e volevano tornare dalla nonna in Sicilia. Ma come molti degli immigrati arrivati nella prima parte del 1900, non tornarono mai per vedere la famiglia lasciata indietro.

A New York la famiglia visse, per un breve periodo, in uno squallido appartamento seminterrato in Elizabeth Street. Subito dopo si trasferirono nella città mineraria di carbone di Pittston Pennsylvania. Molti immigrati da Montedoro vi si stabilirono per lavorare nelle miniere. Giuseppe seguì li suoi cumpari nelle miniere. Si può dire che sia passato dal lavorare in un buco in Sicilia a un altro buco in America. Dopo alcuni anni ne ebbe abbastanza del lavoro in miniera e si trasferì con la famiglia a Buffalo dove lavorarono nelle fabbriche di conserve e nei campi dello Stato di New York occidentale. Era un lavoro da migrante ma considerato una benedizione per la famiglia.

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La difficile situazione dei minatori e dei carusi alla fine divenne nota in tutta Europa e molti investigatori socialmente consapevoli iniziarono a pubblicizzare le condizioni (dipinto di Renato Guttuso).
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Questi includevano li già citati Stoddard e Washington, e molti periodici e riformatori italiani come Sidney Sonnino. Anche Louise Hamilton Caico, una donna inglese che sposò un uomo d'affari di Montedoro, visitò la miniera locale e sollecitò le riforme.

L'età minima fu aumentata a 10 anni con decreto governativo nel 1876. Nel 1905 fu portata a 14 anni e nel 1934 a 16.

Le leggi, tuttavia, non furono applicate in modo rigido e, nonostante questi sforzi, molte delle pratiche peggiori durarono fino agli anni Quaranta e oltre. Il dipinto mostrato sopra, intitolato "La Solfara" (la miniera di zolfo) di Renato Gattuso abbellisce la copertina del racconto "The Hunger Saint" (Il Santo della Fame) di Olivia Kate Cerrone. La sua storia su un carusu siciliano è ambientata nel 1948. Nella sua ricerca ha scoperto il documento sottostante, proveniente dalla miniera di zolfo Floristella a Enna, che mostrava un dipendente elencato come "caruso" nel 1955, che alla fine "si laureò" a "picconiere".

 

Nel 1913, l'autore afroamericano Booker T. Washington visitò l'Europa, indagando sulle condizioni di lavoro in varie imprese. Dopo aver visitato la Sicilia, scrisse:
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"Il negro [americano] non è l'uomo più in basso. La condizione del contadino di colore nelle parti più arretrate degli Stati del Sud d'America, anche dove ha la minore istruzione e il minimo incoraggiamento, è incomparabilmente migliore della condizione e opportunità della popolazione siciliana."

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Riguardo ai carusi, Washington ha detto: "Da questa schiavitù non c'è speranza di libertà, perché né li genitori né il bambino avranno mai denaro sufficiente per ripagare il prestito iniziale.
Le crudeltà a cui sono stati sottoposti li bambini schiavi, come raccontato da coloro che li hanno studiati, sono tanto gravi quanto qualsiasi cosa sia mai stata riferita sulle crudeltà della schiavitù dei negri.

"Questi ragazzi schiavi venivano spesso picchiati e pizzicati, per strappare dai loro corpi sovraccarichi l'ultima goccia di forza che avevano in loro. Quando le percosse non bastavano, era usanza bruciacchiare li polpacci delle loro gambe con lanterne per metterli di nuovo in piedi e, se cercavano di sfuggire a questa schiavitù con la fuga, venivano catturati e picchiati, a volte anche uccisi.
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"Non sono pronto a dire in questo momento fino a che punto credo in un inferno fisico nell'aldilà,
ma una miniera di zolfo in Sicilia è la cosa più vicina all'inferno che mi aspetto di vedere in questa vita."

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Dopo aver visitato il suo villaggio ancestrale, la città mineraria di Lercara Friddi, l'autore Louis Romano ha scritto un romanzo straziante che descrive le difficoltà della famiglia di un minatore di zolfo che muore in un disastro minerario e lascia il sostegno della sua famiglia in le mani di un giovane figlio la cui unica risorsa è lavorare come carusu.
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Egli denuncia l’atteggiamento laissez-faire dei funzionari civili e perfino della gerarchia della chiesa cattolica romana, che favoriva gli interessi dei proprietari minerari britannici rispetto a quelli dei loro stessi cittadini poveri.
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Romano descrive anche la vera rivolta operaia avvenuta a Lercara, contro le ingiustizie dell'industria dello zolfo. Fu uno dei tanti scioperi, interruzioni del lavoro e rivolte che ebbero luogo in tutta la Sicilia, per lo più senza alcun risultato.
 

      Lentamente, gli sforzi per migliorare la situazione dei minatori iniziarono a prendere piede. Cominciarono a nascere società di mutuo soccorso, le prime organizzazioni che si potrebbero chiamare sindacati, come la Società di Mutuo Soccorso dei Solfatai di Serradifalco, di cui mio nonno fu socio fondatore. Questa società fissava le condizioni di lavoro dei minatori (non è chiaro se comprendessero sia li picuneri che li carusi) e prevedeva l'indennità di malattia e le spese funebri.

Quando li siciliani emigravano verso nuove vite negli Stati Uniti, Belgio, Canada e altrove, generalmente si stabilivano in conclavi dei loro paisani dello stesso villaggio e formavano club o società sul modello della Società Siciliana, ad esempio il "Serradifalco club" di mio padre si unirono a Buffalo. Fiorirono anche li circoli rappresentativi degli emigrati di Montedoro, Mussomeli, Racalmuto e di altri centri siciliani.

Sebbene considerati da alcuni semplicemente come club sociali, fornivano anche molte delle tutele del lavoro fornite dall'originaria Società Siciliana.

 

O, zurfaru, zurfaru!
Pani guadagnatu a sudura di sangu

 

O, zolfo, zolfo!
Pane guadagnato sudando sangue

O, zurfaru, zurfaru, lacrimi di sali,
agghiorna, scura, sempri a travagliari.

O, zurfaru, zurfaru, sangu di cristiani,
cuniglia cunigliati nni li tani.

Sunnu dda, al funnu, cu jèttanu l’arma,
cori gravusu di duru caci
ùmmu.

Si senti nu cantu, po’ l’ecu si sp’risci,
di seculi ncupatu

Pirsi nni li vudedda di la terra,
assàcanu làstimi e lamenti.

Cantavanu a curpu di li picuna,
na vota. Ora, nuddu
chiù li senti.
 
                                                         
 

Oh, zolfo, zolfo, lacrime salate,
arriva l'alba, arriva il tramonto, sempre a lavorare!

Oh, zolfo, zolfo, sangue degli uomini,
li conigli si rintanavano nelle loro tane.

Sono lì in fondo, a perdere l'anima,
i cuori appesantiti dai vapori più disgustosi.

Si sente una canzone, poi l'eco si spegne,
ovattato per secoli.

Perso nelle viscere della terra
offrono insulti e lamentele.

Cantavano al ritmo dei picconi,
una volta. Adesso nessuno li sente più.


                                                        
© Piero Carbone

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      Come indicano gli esempi di atti di nascita siciliani riportati in questa pagina, il Codice Civile siciliano, emulando il Codice napoleonico, richiedeva che le parti principali negli atti civili di nascita, matrimonio e morte dovessero registrare non solo li loro nomi e le loro età, ma anche li loro nomi, occupazioni o condizioni.

      Nella mia ricerca genealogica, ho esaminato migliaia di questi documenti, scritti in italiano, non in lingua siciliana, e molti di essi danno occupazioni come zolfataro, zolfataio, zolfaro, zolfaio, solfataio, ecc., che avevo tutte originariamente interpretate nel senso di "minatore di zolfo". Mio padre e mio nonno erano così indicati nei registri di Serradifalco.

       Tuttavia non ho mai trovato un'occupazione o una condizione ufficialmente indicata come 'picconiere', e tanto meno come 'caruso'. Ciò nonostante la stima di Sir Thomas Oliver secondo cui nel 1910 in Sicilia c'erano 40.000 lavoratori dello zolfo. Eppure nessuno di loro venne mai registrato ufficialmente come 'caruso'. Ciò mi ha portato a concludere che "zolfataio", ecc. dovrebbe essere interpretato semplicemente come  "lavoratore dello zolfo", e che molti di loro in realtà erano stati carusi. Io e Joe Di Leo abbiamo chiesto ai contatti, molti in Sicilia, riguardo a questo enigma ma nessuno ha saputo (o voluto) chiarirlo. Credo che gli impiegati non abbiano intenzionalmente elencato 'caruso' come condizione a causa della vergogna che ciò porterebbe alla comunità.

       Alla fine, sulla base della ricerca che Joe Di Leo e io abbiamo scoperto, la mia conclusione è questa: tra la metà e la fine del 1800 e oltre, nelle città principalmente della Sicilia centrale, li ragazzi di appena 5 anni erano impressionati come carusi. Alcuni andavano in miniera con li padri o gli zii, come parte di un'impresa familiare. Alcuni venivano praticamente "venduti" ai proprietari di miniere o ai raccoglitori di miniere da funzionari senza scrupoli dei trovatelli. Alcuni venivano vincolati dalle famiglie povere che ricevevano il 'succursu di murti', con la possibilità che il debito potesse essere saldato dal ragazzo o dalla sua famiglia e lui potesse eventualmente essere liberato dai suoi obblighi.

        La sorte dei carusi fu varia, e alcuni probabilmente fuggirono, se non proprio dalla miniera, almeno dal 'lavoro' di trasporto del minerale, fino a quello, solo leggermente meno oneroso, dei picuneri, ovvero quello di tritare lo zolfo. Alcuni non saldarono mai il loro debito e diventarono adulti nelle miniere, ancora chiamate carusi, sebbene ora fossero uomini, fisicamente rachitici e contorti e intellettualmente immaturi. E alcuni saldarono il loro debito, ma, come gli altri, erano così paralizzati mentalmente e fisicamente dagli anni di sottomissione che non avevano altra scelta se non quella di rimanere in quell'orrendo lavoro fino alla morte.

     Queste condizioni si allentarono quando la Sicilia entrò nel XX secolo quando furono approvate leggi, apparentemente per aumentare l’età minima alla quale li ragazzi potevano essere assunti e per migliorare le loro condizioni di lavoro. Tuttavia, non sempre le leggi furono rispettate e in alcune miniere gli abusi continuarono fino agli anni Quaranta. Le pratiche di lunga data che prevedevano il trattamento dei carusi hanno senza dubbio lasciato un segno indelebile sul carattere di chiunque fosse associato a questi abbandonati. Un protagonista del mio racconto 'The Lady of the Wheel' (La Signora della Ruota ~ La Ruotaia) è Nino Alessi, un picuneri. Un passaggio del libro recita:
 

Sebbene Nino non avesse mai potuto permettersi i propri carusi, era intuitivamente grato di non essere mai stato nella posizione di possedere virtualmente un'altra persona. "Questa pratica non può che bruciare gli animi dei picuneri oltre che quelli dei carusi", pensava.


    Per me e Joe rimane ancora la domanda, a cui probabilmente non verrà mai data risposta: "Mio nonno era un carusu?"
 

 

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Per ulteriori informazioni sui carusi della Sicilia, vedere questi riferimenti:

Camilleri, Andrea - 'il sonaglio'

Cerrone, Olivia Kate - 'The Hunger Saint'

Coniglio, Angelo F. - 'The Lady of the Wheel'

Montedoro, Caltanissetta, Sicilia - 'Museum of the Sulfur Mine'

Oliver, Sir Thomas - 'The Sulphur Miners of Sicily', British Medical Journal

Romano, Louis - 'Carusi: The Shame of Sicily'

Scola, Allison - 'Sicily's Sulfur Mines', experience sicily.com

Stoddard, John L. - 'Lectures: Supplementary Volume Number Four - Sicily and Genoa'

Washington, Booker T. - 'The Man Farthest Down'

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L'autore siciliano Andrea Camilleri ha scritto dei carusi nel suo romanzo "il sonaglio". Ecco, da un recente articolo su un periodico italiano, un estratto che presenta la proposta di vendita di un rappresentante di una miniera che cerca di reclutare li figli di una famiglia.

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Una storia delle miniere di zolfo della Sicilia
Questo articolo è apparso su un blog italiano di Ugo Passanisi, all'indirizzo

http://bit.ly/UgoPassanisi
 

Li “carusi” nelle solfatare della Sicilia ovvero quando li bambini siciliani venivano venduti o “affittati” per lavorare nudi nelle miniere di zolfo anche 16 ore al giorno

Pubblicato il 12 maggio 2015

Un saggio rigoroso e commovente, fra  storia e letteratura –  di Ugo Passanisi 

Discutere il tema dei carusi significa rievocare una delle pagine più tragiche, umilianti e vergognose, ma anche meno conosciute della storia del popolo siciliano. Una storia, in ogni caso, peculiare della Sicilia che non trova alcun paragonabile riscontro in avvenimenti consimili in altre regioni del nostro Paese. Quella dei carusi è una vicenda che inizia nel 1700 e che si sviluppa per oltre due secoli fino alla metà del ‘900.  Inizia con i Borboni ai quali sopravvive, e continuerà in seguito anche dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla corona dei Savoia e alla proclamazione a primo re d’Italia di Vittorio Emanuele II.   Con il nuovo regime, infatti, nulla cambia per la Sicilia, anzi, le rivolte contadine contro il latifondo sono soffocate nel sangue dai garibaldini di Nino Bixio, come è avvenuto – ma non sarà il solo caso – con il processo sommario e l’eccidio di Bronte.  I grandi proprietari terrieri hanno mantenuto saldamente nelle loro mani il possesso del territorio, e sono andate deluse le grandi attese di riscatto riposte in Garibaldi e nel nuovo regime dai braccianti affamati di terra – i cosiddetti “picciotti” tanto esaltati dalla retorica risorgimentale – che pure, per questo motivo e con questa speranza  sono accorsi in massa sotto le sue bandiere. La Destra storica ha imposto ancora una volta la sua legge e, come sotto i Borboni, la miseria continua a regnare sovrana nelle campagne dell’Isola. Questa premessa è indispensabile per spiegare le ragioni profonde che, nella seconda metà dell’800 e nel primo ‘900, hanno determinato l’esodo massiccio di migliaia di siciliani, giovani, vecchi e bambini, non solo verso le Americhe, ma anche, per coloro che sono rimasti, dal contado alle miniere. E in questo contesto storico, in questa situazione sociale, perciò, non può cambiare, anzi riceve maggiore impulso la drammatica vicenda dei carusi. Ma, chi sono questi carusi ?  Con il termine carusi vengono indicati i bambini e i ragazzi costretti dall’indigenza economica delle loro famiglie a lavorare nelle miniere di zolfo.  Il termine pare sia derivato dalla consuetudine di rasare completamente la testa di questi giovanissimi lavoratori, probabilmente per i motivi igienici conseguenti alle condizioni di estrema sporcizia esistenti nelle miniere: tale taglio di capelli veniva di fatto definito nel dialetto tipico dell’epoca della zona di Caltanissetta come tagghiu carusu, mentre successivamente servirà a indicare genericamente i bambini dai 5 ai 12 anni circa. Ancora oggi, segnatamente nel catanese, ma anche in altre zone della Sicilia, le parole carusu, carusazzu, identificano il “ragazzo”, il “ragazzaccio”.

C’è da dire che, anche secondo la legislazione del tempo, era illegale impiegare nel lavoro manuale un minore di 12 anni in quanto la legge stabiliva, già allora, che la scuola dovesse essere obbligatoria per i bambini fino alla terza classe elementare. Tuttavia,  questa disposizione veniva largamente disattesa a causa della miseria nella quale vivevano le famiglie contadine che costringeva tutti al lavoro nei campi fin  dalla più giovane età, come è dimostrato dal fatto che l’analfabetismo raggiungeva, particolarmente nelle campagne, percentuali altissime, assai vicine al 100%. Del resto, le autorità governative dell’epoca si preoccupavano di tutto fuorché di farla rispettare, attente com’erano a non venire in conflitto con gli interessi economici della grassa borghesia costituita dai proprietari terrieri, da cui erano lautamente foraggiate, che traeva lauti guadagni dallo sfruttamento del lavoro minorile. Per lo stesso motivo nessun controllo veniva esercitato sulle condizioni di lavoro nelle miniere che erano durissime, addirittura inaccettabili secondo gli standard odierni di sicurezza, mentre il rispetto dei diritti umani, dell’infanzia e dei lavoratori, erano pressoché inesistenti. L’orario di lavoro, infatti, poteva arrivare anche a sedici ore giornaliere, e i ragazzi subivano abitualmente maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di mancanze di qualsiasi genere o di scarso rendimento senza che alcuno avesse il potere di intervenire in loro difesa. Ai genitori dei ragazzi arruolati come manovalanza nelle miniere veniva corrisposto un pagamento anticipato, che poteva variare da 100 a 200 lire, chiamato “soccorso morto”.

In pratica si trattava di un vero e proprio prezzo di compravendita poiché la paga dei carusi era di pochi centesimi al giorno dalla quale veniva dedotto il costo del vitto fornito dal picconiere alle cui dirette dipendenze i carusi lavoravano, chiamato “spesa”, spesso costituito da alimenti di pessima qualità, o addirittura di solo pane, fornito inoltre ad un prezzo esoso.  Ai genitori dei ragazzi era quindi praticamente preclusa ogni possibilità di riscatto dei propri figli che divenivano, di fatto, proprietà esclusiva del picconiere che li aveva acquistati e che poteva disporre di loro a suo piacimento. Le condizioni di vita dei carusi hanno trovato larga eco nel passato nella letteratura siciliana. Le descrive ampiamente Giovanni Verga nel racconto “Rosso Malpelo”, e così ne parla Luigi Pirandello nella sua novella “Ciaula scopre la luna”: “Nelle dure facce quasi spente dal buio crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come tanti enormi formicai …. Ciàula si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo di equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?”

Ed è ricchissimo, poi, il repertorio poetico e di canti popolari dal quale traspare la cupa rassegnazione degli zolfatari alla loro misera sorte, anche se non ancora la rabbia e la ribellione contro lo sfruttamento che sarebbero maturati solo molto più tardi, nei primi decenni del ‘900, grazie alle lotte di sindacalisti agguerriti e combattivi.  Anche in tempi moderni la tragedia di questi ragazzi è stata rievocata da Andrea Camilleri  nel suo romanzo “Il sonaglio”.  In questo racconto il reclutatore di bambini così si rivolge a un gruppo di madri in ascolto: “Mi chiamo Filibertu Alagna e vengo da un paisi ricco che si chiama Alagona. L’aviti ‘ntiso nominari? E’ un paisi ricco pirchì havi cinco minere che sunno i posti indove scavanno veni fora il surfaro…. Nelle minere travagliano, pagati bono, òmini granni, carusi e picciotteddri. L’etati dei carusi va dai se’ all’unnici anni, quella dei picciotteddri dai dudici ai diciotto. Per ogni jornata di travaglio al caruso spettano ottantacinco cintesimi, al picciotteddro ‘nveci novanta. Vi spiego come funziona la facenna. Ogni caruso o picciotteddro veni pigliato in custoddia da un picconeri, il quale ci pensa lui a darigli da mangiari, naturalmente tinennosi qualichi cintesimo dalla paga. Ma ccà veni il bello. Il picconeri, in cangio di vostro figlio, vi duna ‘na cosa che si chiama soccorso morto. Soccorso significa aiuto e morto veni a diri che voi ve lo pigliate e non doviti arrestituirglielo.  Il soccorso morto consisti in ducento liri, arripeto, ducento liri, che io vi dugno manu cu’ mano, e per conto del picconeri, al momento nel quale mi consegnate vostro figlio.  Se minni date dù, io vi dugno quattrocento liri, se minni dati tri io vi dugno seicento liri. Mi state accapennu? Questi sordi addiventano vostri e vui ne potiti fari quello che voliti e non doviti renniri cunto a nisciuno. Pinsatici bono. Un caruso sino a deci, unnici anni, che vi rappresenta ‘n famiglia? Un piso. Non travaglia ed è ‘na vucca da sfamari. Dànnolo a mia, il caruso travaglia e guadagna, non vi pisa cchiù supra alli spalli e vui v’attrovati ad aviri ‘n mano tanto dinaro che manco in sogno. Parlatene a tutte le fimmine che accanoscite e parlatene coi mariti vostri. Io sugnu alla pinsioni Pace. Portatemi i figli vostri e io ve li pago subito. V’avverto: resto ancora tri jorni. Non facitivi scappari la fortuna.”

Dunque un discorso persuasivo ed estremamente convincente per chi, giornalmente, è costretto a tagliare col coltello la fame propria e quella della propria famiglia. E infatti Zina, una delle donne presenti, ne parla col marito Adelio, poverissimo pescatore la cui attività gli consente a stento di sopravvivere alla miseria più nera. Adelio esita, non vorrebbe privarsi del figlio che lo aiuta nel suo lavoro, ma la proposta è allettante e, alla fine, spinto dalla necessità, decide di chiedere consiglio al suo unico cliente, un certo Don Pitrino Vadalà. Ma come e dove nasce in Sicilia l’industria dello zolfo? Siamo nel cosiddetto altipiano dello zolfo, quello che da Caltanissetta va ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Sicilia dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dai territori di Calatafimi e di Lercara Friddi e, nel catanese e nell’ennese, da Assoro a Licodia Eubea, a mano a mano si infittiscono tra Cianciana e Valguarnera, diventando un continuo lago rosso attorno ad Agrigento, da Aragona a Serradifalco. Già al tempo dei Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, e quello sotterraneo viene scavato, fuso, e poi solidificato in pani, come è attestato dalle lastre di terracotta col marchio di Racalmuto conservate al Museo Nazionale di Palermo, per essere poi impiegato in medicina e nel trattamento delle stoffe. 

Ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’Isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia, come abbiamo detto, nel ‘700 sotto i Borboni con la prima rivoluzione industriale e con la scoperta di un nuovo metodo di preparazione dell’acido solforico che aveva larghissimo utilizzo nell’industria tessile e in quella bellica degli esplosivi. Lo scoprono per primi, e ne intuiscono le enormi potenzialità economiche, gli imprenditori francesi e inglesi. Una compagnia francese, in particolare, avrebbe voluto creare un’industria di lavorazione sul posto costruendo una raffineria di zolfo con due camere di sublimazione a Porto Empedocle.  La stessa compagnia richiese poi il monopolio di compravendita dello zolfo siciliano, ma poiché gli inglesi minacciavano di  bombardare i porti del meridione se questa richiesta non fosse stata respinta, Ferdinando II di Borbone, nel 1836, fu costretto a revocare la concessione e a sciogliere la società. Ciò stroncò una grande occasione economica per la Sicilia a tutto vantaggio degli esportatori stranieri, principalmente francesi e inglesi, i soli, insieme a pochissimi proprietari terrieri siciliani, a essersi arricchiti con lo sfruttamento del sottosuolo dell’Isola, senza che mai i proventi di questa ricchezza del nostro territorio fossero reinvestiti in Sicilia. Lo zolfo siciliano, di ottima qualità, imbarcato su velieri, veniva inviato a Marsiglia per essere poi lavorato all’estero per i mercati francese e britannico.  Ancora una volta la Sicilia venne trattata come una colonia da sfruttare  e dovette soccombere alla prepotenza dello straniero. Già sul finire di quel secolo attivissime erano le miniere di Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanisseta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Nel 1890 ne sarebbero state in esercizio ben 480 e nei primi anni del ‘900 le miniere attive sarebbero diventate 886 con circa 40.000 occupati. La febbre dello zolfo prende tutti: proprietari terrieri, gabelloti, picconieri, commercianti, magazzinieri, carrettieri, artigiani, carusi. Coinvolge imprenditori stranieri e speculatori di ogni nazionalità.

Attira masse di uomini dai popolosi paesi dell’interno dell’Isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove, da secoli, le possibilità di lavoro dipendono dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro; dove le giornate lavorative si riducono a poche nell’arco  dell’anno; dove il contadino è angariato da tasse, decime e balzelli di ogni tipo a cui bisogna aggiungere le tangenti illegali; dove le squadre di lavoratori stagionali, mietitori e spigolatori, sono costrette al nomadismo; dove la vita, insomma, raggiunge inimmaginabili livelli di sfruttamento e di miseria. La miniera, dunque, appare come un miraggio nel deserto e offre una speranza di riscatto a una moltitudine di miserabili diseredati. E’ una febbre che cresce col tempo e si sviluppa nell’arco di due secoli fino al ‘900, quando, per la concorrenza sui mercati internazionali dello zolfo americano, decresce fino a sparire del tutto negli anni ’60, lasciando tutto come prima, peggio di prima, com’è destino di questa terra infelice, come avverrà – poiché la Storia si ripete  – negli anni ’90 con l’industria petrolifera e petrolchimica, com’è successo nel primo decennio del 2000 con l’industria automobilistica a Termini Imerese. Nel 1934 una legge dello Stato italiano vietò alle donne e ai ragazzi di età inferiore ai 16 anni di calarsi all’interno delle zolfare mentre già da qualche anno prima, nel 1927, era stata sancita per legge la demanialità del sottosuolo. Solo lo Stato poteva assegnare in concessione, perpetua o temporanea, lo sfruttamento dei giacimenti. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, malgrado gli interventi governativi prima e regionali dopo, malgrado la nascita nel 1963 dell’Ente Minerario Siciliano, l’ E.M.S., continuò il declino dell’attività estrattiva dello zolfo e, a una a una, le miniere chiusero irreversibilmente. E un destino ancora peggiore è toccato alle miniere di sali potassici di Pasquasia, dapprima abbandonate e successivamente trasformate in un deposito di migliaia di tonnellate di amianto e, pare, di scorie nucleari.

Ma, in ogni caso, al di là della concorrenza americana, l’industria mineraria siciliana non poteva avere prospettive di sopravvivenza a causa della carenza di capitali da investire nella modernizzazione degli impianti di estrazione, delle infrastrutture, strade e ferrovie, per l’insufficienza dei porti, per la mancanza di spirito imprenditoriale, per la pochezza dell’industria chimica isolana. Quella della zolfara è stata, dunque, una storia triste di miseria, di sfruttamento indiscriminato, di sofferenze indicibili, di morte, di abbrutimento, di negazione della dignità umana.  Sull’altipiano sono rimasti l’amaro della delusione e della sconfitta, un mare di detriti, cumuli immensi di scorie, un vasto cimitero di caverne risonanti, di miniere morte, di tralicci arrugginiti, di binari contorti dei carrelli. Qui sono tornati a ricrescere i cespugli spinosi del deserto, sono tornate a strisciare le serpi, a volteggiare i corvi. Purtroppo la Storia, quella con la “S” maiuscola, non è mai servita a insegnare qualcosa agli uomini: solo oggi, forse, si comincia a comprendere che la vocazione di questa nostra terra, ricchissima di storia, di reperti archeologici unici al mondo, di splendide spiagge, di isole e arcipelaghi meravigliosi, di bellezze naturali e  architettoniche senza pari, non può essere quella industriale, ma che il suo futuro risiede soltanto nello sviluppo di un’agricoltura razionale, moderna e meccanizzata, e, soprattutto, di un turismo di qualità.

Si pensi, solo per un momento e per fare un esempio che è sotto i nostri occhi, che cosa avrebbe potuto costituire dal punto di vista turistico, e quale grandiosa occasione di sviluppo occupazionale avrebbe potuto rappresentare la valorizzazione della fascia costiera che, dalle foci del Mulinello e del Marcellino, dall’Hangar dirigibili di Augusta, passando per le rovine di Mègara Hyblaea giunge a Thapsos nella penisola Magnisi, al seno di Priolo e oltre: al suo confronto la tanto celebrata costiera adriatica farebbe la figura della parente povera. Porticcioli turistici, alberghi, ritrovi, night, luoghi di ristoro e di sport acquatici, pescaturismo, spiagge tropicali, un mare cristallino, tutto nell’ambito protetto della rada: un sogno, a fronte del quale rimane un deserto di rottami industriali arrugginiti, una terra avvelenata dai rifiuti tossici, un mare inquinato da veleni di ogni tipo, una costa deturpata per secoli, forse per sempre. E il cancro. Ma vediamo com’era organizzata, in quei due secoli passati, l’attività della miniera. In superficie, rintanati nei loro palazzi di Palermo, di Agrigento e di Catania, i proprietari dei terreni che, per legge, erano anche proprietari del sottosuolo, non ancora considerato proprietà demaniale, i quali, senza alcun rischio né preoccupazione, ricevevano dal gabelloto, cioè dal concessionario, l’estaglio, cioè una quota del profitto, che poteva raggiungere il 30% derivante dalla vendita del prodotto.  C’era poi una vasta categoria parassitaria che traeva profitto dal lavoro della miniera, costituita dagli sborsanti, cioè dai finanziatori, dai gabelloti, dai magazzinieri, dagli esportatori.  E poi i carrettieri, i fabbri, i bottegai, cioè coloro che oggi, insomma, chiameremmo l’indotto. Alla lavorazione dello zolfo estratto erano addetti i calcaronai, incaricati della preparazione dei calcaroni, cioè delle fornaci, gli arditori, preposti alla fusione dello zolfo, i vagonai  che spingevano i carrelli carichi sui binari, dall’imboccatura della miniera fino ai calcaroni. 

E tutto questo apparato poggiava principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere  e il caruso.  L’uno, che a colpi di piccone estraeva lo zolfo dalle viscere della terra; l’altro, che sulle sue spalle lo trasportava in superficie, a due o trecento e più metri d’altezza, arrampicandosi su gradini scavati nella roccia con pendenze ripidissime, servendosi di ceste contenenti fino a 35 chili di zolfo i più piccoli e fino a 80 chili i ragazzi più grandi.  Ogni picconiere impiegava in media da due a quattro carusi. Nella galleria la temperatura arriva a 50° c. Manca l’aria. Completamente nudi, grondando sudore e contratti sotto i gravosissimi pesi che portavano, una volta usciti all’aria aperta, spesso gelida, i carusi scaricavano il materiale nei carrelli che altri ragazzi spingevano fino alla bocca dei calcaroni, sempre correndo, incitati, spintonati, spesso frustati e bastonati come bestie con bastoni e tubi di gomma, in condizioni incredibili di crudele sfruttamento. Impossibile allontanarsi dal lavoro anche per pochi minuti, nemmeno per urgenti bisogni corporali. Se proprio non se ne poteva fare a meno, si doveva riportare la caldarella  piena, a dimostrazione dell’avvenuto bisogno e mostrarla ai sorveglianti. Dai verbali dei processi degli anni ’50 contro lo sfruttamento minorile, segnatamente di quello celebrato a Lercara in cui era imputato un certo Ferrara, proprietario di miniere della zona, emerge un quadro terrificante di abusi e di violenze, un vero girone dantesco di dannati. Naturalmente in questo processo tutti gli imputati si proclamarono innocenti attribuendo le accuse di malversazioni e di comportamenti illegali alle calunnie dei sindacalisti comunisti o a speculazioni politiche: inutile difesa, smentita dalle dettagliate testimonianze dei carusi e da ben 65 perizie mediche ordinate dal Tribunale a un collegio di medici palermitani.

Testimonianze agghiaccianti, come quella di Beniamino Minutella di 14 anni al Giudice Istruttore: “Ero addetto a scavare col piccone il piano dei fossati per abbassarne il livello al fine di procurare la fuoriuscita dell’acqua. Per eseguire tale lavoro ero costretto a stare con l’acqua che mi arrivava ai ginocchi, Il lavoro iniziava alle 16 e terminava alle 4 di notte. A causa dell’umidità e della polvere che si respira gli occhi si infiammano e bruciano al punto che si è  costretti ad andare all’aperto. Succede spesso che il Ferrara alle nostre rimostranze perché non ci fornisce gli stivali, ci risponda: state lì a crepare nell’acqua fino a farvi schiattare il cuore”. E questa la deposizione di Antonino Marsala di soli 11 anni: “Confermo le dichiarazioni rese al Pretore, Lavoravo 12 ore al giorno, dalle 6 alle 18. Fui sottoposto a bastonature dai sorveglianti perché non tenevo il ritmo che si voleva. In qualità di caruso ero addetto al trasporto di caldarelle di  zolfo del peso di 35 chili. Preciso che una volta, mentre mi trovavo in miniera,  Giuseppe Modica mi diede una pedata e mi ferì all’occhio sinistro producendomi una lesione di cui ancora porto la cicatrice. Non mi fece medicare e mi limitai a fasciare l’occhio con un fazzoletto e dovetti continuare a lavorare …” E di deposizioni come queste, più o meno tutte dello stesso tenore, ce ne sono 65 agli atti del processo. Ma quella che mi sembra, più di ogni altra, commovente ed emotivamente significativa è la seguente descrizione anonima del lavoro in miniera nella quale mi sono imbattuto nel corso delle mie ricerche su questo affascinante argomento storico: “L’ascensore inizia a scendere dopo un piccolo sobbalzo. Il rumore della ferraglia è assordante. Man mano il cielo sopra di loro sparisce. I loro volti sono rassegnati, accostati uno all’altro come bestie in quell’ascensore della miniera, che li ingoia come un verme senza fondo. L’ultimo sguardo a quel cielo .Chissà se lo rivedranno. Stretto al petto tengono quel misero involto di pane e olive. I carusi, bambini dagli 8 ai 12 anni, ben presto hanno lasciato i loro giochi. E non sono le ginocchia ad essere sbucciate, giocando a pallone, ma le mani spaccate dal lavoro. Visi smunti, impauriti, mentre scendono insieme ai grandi in quel buco nero. Il caldo aumenta man mano che si scende e l’aria è poca portata dagli sfiatatoi che scorrono lungo le gallerie. Nudi scavano nelle gallerie carusi e adulti. Vecchi e giovani sudati e impastati di quello zolfo strappato alla roccia. Muli insieme ai muli, ormai ciechi, che servono a tirare i carrelli col materiale al montacarichi. Chissà che colore ha il cielo oggi. Chissà cosa pensano i carusi mentre respirano a fatica in quella bolgia di polvere e buio. Inferno sulla terra. Morti prima di nascere. E quanti, stretti ai loro compagni, sono morti rimanendo sepolti da gallerie crollate o da quel maledetto gas. Trabonella, Gessolungo …. miniere una volta, ora cimiteri, dove nessuno ha portato mai fiori, dove le urla strazianti delle madri si sono perse ingoiate dal tempo.

Figli di questa terra, morti nel suo ventre, vi ricordo ogni volta che vedo quelle torri che ormai cedono arrugginite. Non una tomba su di voi, né terra benedetta.
Le conseguenze fisiche per i carusi utilizzati nelle miniere furono terribili e tali da segnarli per tutta la vita: cecità, rachitismo, deformazioni scheletriche, malattie irreversibili dell’apparato respiratorio dovute alla polvere, allo zolfo, e ai continui sbalzi di temperatura tra il caldo asfissiante della miniera e l’aria gelida esterna. Moltissimi i morti in giovanissima età, e, tutti quelli che sopravvissero, quasi tutti ingobbiti, dichiarati inabili al servizio militare. Innumerevoli gli incidenti e le vittime per le esplosioni di “grisou”, il gas micidiale e inodore la cui presenza nelle gallerie poteva essere rivelata solo dai cardellini che i minatori portavano con sé in piccole gabbie affinché, con la loro morte improvvisa, segnalassero il pericolo imminente. Ciò, tuttavia, spesso avveniva troppo tardi  perché gli uomini intrappolati nei bassi e tortuosi cunicoli potessero salvarsi fuggendo in tempo all’aperto. Una lapide posta nei pressi  di una miniera a cura dell’ Associazione “Amici della Miniera” di Caltanissetta riporta la seguente iscrizione: “Nella Valle delle Zolfare quel mattino pioveva. Correva l’anno 1881, erano le 6 del 12 novembre. 120 minatori che lavoravano nella miniera Gessolungo sezione “Calafato” di contrada Juncio, si accingevano a raggiungere i propri cantieri in sotterraneo percorrendo la galleria “Piana”, quando improvvisamente furono investiti da un violento incendio causato dallo scoppio di “grisou”prodotto dalla fiamma di una lampada ad acetilene.55 minatori, anche se feriti, riuscirono a raggiungere l’esterno e mettersi in salvo. Per gli altri 65 fu la fine. 16 di loro feriti gravemente morirono in ospedale. Gli altri 49 recuperati dopo venti giorni sono stati sepolti in questo luogo. Tra loro ci sono 19 “carusi” di età da 8 a 14 anni. Nove sono rimasti ignoti. Viandante, ricordali per le loro sofferenze, il sacrificio e la vita violentemente spezzata ed eleva una preghiera a Dio.Novembre 2001”

In un altro incidente in miniera in una sola volta morirono 150 carusi  e, sulla stele che li ricorda, 28 sono senza nome. Queste storie, questo mondo scomparso, quest’illusione che non migliorò la condizione della gente di Sicilia rivivono oggi grazie all’istituzione della Riserva posta fra Aidone, Piazza Armerina e Valguarnera, nell’ennese. Negli anni ’80, ad attività estrattiva conclusa, nacque l’esigenza di non disperdere quel patrimonio ma, anzi, di utilizzarlo come leva per lo sviluppo locale, offrendo ai turisti la possibilità di visitare quello che è considerato il parco di archeologia industriale più grande ed interessante del mondo, un vero e proprio museo all’aria aperta. Nei tre siti estrattivi di  Fioristella, Grottacalda e Gallizzi, 400 ettari immersi nei boschi tornano a colonizzare quell’area un tempo resa sterile dall’anidride solforosa liberata dalla combustione dello zolfo: natura e miniera oggi riescono a convivere dopo essere stati, per oltre due secoli, tra loro incompatibili. Infine, e per concludere, mi sia consentita un’annotazione personale e inedita a margine di queste mie ricerche. Contrariamente a quanto potrebbe far pensare l’allegro “trallalleru” del ritornello e il motivo accattivante, “Vitti ‘na crozza”, elaborata dal maestro agrigentino Francesco Li Causi, e resa famosa da Rossana Fratello nella colonna sonora del film di Pietro Germi “Il cammino della speranza”, è una canzone triste e, amio avviso, è zolfatara. Protagonista del canto è una crozza, un teschio, che racconta il suo dolore per non aver avuto, nel giorno della morte, nemmeno un rintocco di campana. Un’usanza, quest’ultima, imposta dalla Chiesa del tempo che vietava i rintocchi a morto per chi spirava tra le viscere della terra.  La morte in galleria era vista, dunque, come una punizione divina per i peccati commessi. Colui che moriva in miniera non aveva nemmeno diritto al funerale ecclesiastico e veniva portato direttamente al cimitero. Il cannuni su cui appoggia il teschio non è, perciò, la canna della temibile arma – cosa che non avrebbe significato –  ma, nel gergo solfataro, la vucca, cioè il boccaporto, l’ingresso della miniera, dove la crozza invoca disperatamente la pace dell’anima, irraggiungibile finché una mano pietosa non ne avrà ricomposto i resti. Questa è, lo so bene, solo una delle tante versioni e dei tanti significati che sono stati attribuiti nel tempo a questa famosissima canzone siciliana, la cui origine pare risalire all’800, e di cui esistono testi e interpretazioni tanto diversi tra loro. 

A me, però, da profano, è sembrata, non solo la più suggestiva, ma anche la più realistica, così come mi è sembrato doveroso, se la mia opinione è quella giusta, sottrarre questo meraviglioso canto all’equivoco che da lungo tempo l’ha avvolto e che, in ogni caso, ne ha fatto uno dei più noti motivi della nostra tradizione, a riprova di quanto la vicenda dello zolfo e dei carusi abbia inciso sulla letteratura, arte, costume e folklore della Sicilia, e segnato la vita della nostra gente. 

La chiusura delle miniere di zolfo, di salgemma e di sali potassici in Sicilia pose fine, come abbiamo visto, alla tragedia dei carusi, ma non a quella dei minatori siciliani. L’8 agosto 1956, infatti, si consumava in Belgio una delle catastrofi minerarie più tragiche della storia dell’Europa occidentale. Nella miniera di Marcinelle perirono 262 minatori, 136 dei quali, più della metà quindi, erano siciliani. Si trattava di poveri sventurati che avevano trovato il modo di continuare a corrodersi i polmoni nelle miniere di carbone belghe. Dieci anni prima, il 23 giugno 1946 il governo italiano aveva stipulato e sottoscritto con quello belga un accordo criminale e scellerato in forza del quale l’Italia avrebbe acquistato carbone dal Belgio a prezzo agevolato in cambio dell’invio di 50.000 minatori che, per un certo numero di anni, non avrebbero dovuto né potuto cambiare lavoro, pena l’arresto. In pratica, carne umana in cambio di energia. I minatori siciliani lasciarono la loro terra con tanti dubbi e tre sole certezze: la prima, che la guerra per loro non era finita; la seconda, che prima o poi si sarebbero ammalati di silicosi; la terza, che molti di loro non sarebbero più tornati a casa.

Quella che segue è la testimonianza di uno di loro, siciliano di Augusta, Salvatore Agrillo, resa in un suo scritto inedito dal titolo “Storia di un minatore siciliano” che ho avuto la ventura di poter leggere: “Vengo dal mare, dalla terra dei vulcani,da una terra secca e calcarea. Ero giovane e vigoroso. Avendo sentito parlare di lavoro all’estero, mi ci sono interessato. Mi decisi di andare a vedere questi paesi lontani dei quali sognavo. Presi la decisione di partire per il Belgio e le sue miniere. Con le carte in regola, annunciai la mia decisione ai miei genitori. Si opposero ma alla fine accettarono la mia decisione. Ho rassicurato tutti, i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle. Dicevo loro che avrei fatto fortuna e che li avrei aiutati a vivere meglio perché la vita era molto dura a quell’epoca, nel dopoguerra. Presi il treno ad Augusta, la mia città natale, in uno degli ultimi convogli di lavoratori emigranti del 1946. Partii per il Belgio. Il convoglio attraversava lentamente l’Italia. Dopo alcuni giorni di viaggio e numerose peripezie il treno arrivò a destinazione, cioè Boussu. In quel posto, all’inizio rimasi deluso, tutto era nero; io che venivo dal paese del sole e dell’acqua colore azzurro. Ma mi rassegnai. Ero venuto lì per lavorare. Poi mi installai con i miei futuri colleghi di lavoro in piccole casette. Incominciai a lavorare alla “Sentinelle” e poi all’ “Alliance” e alcuni anni più tardi a “Vedette de Saint-Antoine”.

Nel frattempo ci fu un reclutamento per comporre una squadra di salvataggio e ne presi parte con fierezza. Continuavo a seguire i corsi di salvataggio e sopravvivenza e a lavorare. Lavorai per 17 anni nel profondo delle miniere. Qualche volta mi ferivo ma non gravemente. Però alcuni miei compagni persero la vita lì sotto. Nel ’59, alla “Sentinelle”, durante un’avanzata nel taglio della pietra, una falda di acqua sotterranea fu bucata e inondò parecchie gallerie che erano destinate a mettere dei cavalli condannati a lavorare nel fondo. Per un mese, curai, feci mangiare e pulii un cavallo. Ogni giorno mi occupavo di lui e un legame si era instaurato tra lui e me. Riconosceva i miei passi e il mio fischio. Era contento di vedermi ogni volta. Più avanti si è potuto far risalire il cavallo ed egli fu chiamato “Noè” perché era stato salvato dalle acque. Per questo atto ricevetti una medaglia d’argento contro la crudeltà verso gli animali.

Alcuni salvataggi hanno avuto meno successo. Un esempio fra gli altri fu “Marcasse”. Una perdita di grisou. Nessuno si salvò. Poi venne la catastrofe, la più terribile che il paese abbia conosciuto: “Le Bois du Casier à Marcinelles”.  Arrivata in autunno, la mia squadra del “grand trait de Frameries” lavorò un mese intero al salvataggio di questi uomini bloccati nel fondo della miniera. Sfortunatamente il numero delle vittime fu pesante. Più di 250 persero la vita. Numerose scene erano spaventevoli da vedere e ci sono voluti forza e coraggio per rimontare in superficie tutti quei corpi senza vita e renderli alle loro famiglie, le quali aspettavano questi uomini vivi con tanta speranza. Alla fine di questo terribile salvataggio, la squadra ricevette una delle più alte distinzioni per questo atto umanitario: il “Carnegie Hero Fund”. Dal Governo italiano ricevetti l’ “Ordine della Stella della Solidarietà”. La mia squadra e io ricevemmo dalle mani del Re Baudoin le congratulazioni, gli onori ed i ringraziamenti delle famiglie dei minatori defunti. E infine abbiamo ricevuto per quell’atto umanitario una Medaglia d’oro dal Governo belga. Sì, ho veramente amato  il mio mestiere di minatore di fondo e ne sono molto fiero. A tutti i miei colleghi vivi, quando verranno lì dove sono io ora, parleremo di nuovo tra di noi, di storie vissute a Bouviaux, di carbone e di grisou. Ecco la storia di un minatore di fondo chiamato Agrillo Salvatore.”
Una storia semplice e genuina, come l’uomo che l’ha narrata, e che non ha bisogno di alcun commento. 

   Ugo Passanisi

 

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     Il testo di "Vitti 'na crozza" ("Ho visto un teschio"), menzionato nel saggio sopra, è tratto da un antico poema o favola siciliano anonimo. La melodia fu aggiunta per un film teatrale del 1950 e la canzone divenne una melodia popolare e spensierata, li cui testi furono ignorati o fraintesi dalla maggior parte degli ascoltatori. Come nota Ugo Passanisi, le parole trasmettono in realtà il grido lamentoso dei resti di un minatore di zolfo che fu lasciato morire in una miniera dopo un disastro, rifiutandosi di ricevere li sacramenti finali o addirittura di suonare le campane della chiesa a causa della politica superstiziosa della chiesa dell'epoca. .

Pietro Germi, il cineasta, ha ascoltato una versione della poesia popolare recitata da Giuseppe Bisaccia, minatore di zolfo di Favara, e ha chiesto al cantautore Franco Li Causi di metterla in musica per il film "il camino della speranza" ").

Esistono molte versioni della poesia/canzone; di seguito, ne presento una versione, con una traduzione. La parola siciliana per teschio, 'crozza', è un sostantivo femminile, quindi nei testi siciliani viene chiamata "idda" ("lei"), ma il riferimento è chiaramente a uno zolfaro, e ho usato "lui "nella traduzione.

Vitti na crozza ‘n nu cannuni
E cu sta crozza mi mis a parlari
idda m'arrispunnì cu' gran duluri
muriri senza toccu di campani.

Si 'nn'eru, si 'nni eru li me anni
si 'nn'eru si 'nni eru 'un sacciu unni
ora ca su' arrivatu a uttant'anni
chiamu la morti e idda mi arrispuni
 
Cunzàtimi, cunzàtimi stu lettu
ca di li vermi su mangiatu tuttu
si nun lu scuntu cca lu me piccatu
lu scuntu a chidda vita a chiantu ruttu

Ho visto un teschio in una miniera
e con questo teschio ho cominciato a conversare.
Rispose con grande dolore:
"Oh, morire senza il suono delle campane."

Se ne sono andati, li miei anni se ne sono andati
se ne sono andati, non so dove.
Ora che ho compiuto ottant'anni
Chiamo la Morte e lei risponde.


Fammi, fammi il mio letto
perché sono consumato dai vermi.
Se non mi pento del mio peccato qui
Mi pentirò nell'altra vita con un grido rauco.

Ecco due versioni della canzone (fai clic sui collegamenti), una di Franco Battiato,
.
e uno che ho ascoltato di persona con mia nipote Jackie al Sicilia Canta! celebrazione
a Hamilton, Ontario, alla stazione LIUNA  nel settembre 2018, cantata da Rita Chiarelli.

 

 "Cu lu scuru vaiu" è una canzone popolare tradizionale dei minatori di zolfo.
Si lamenta "Parto al scuro, passo la giornata al scuro, torno al scuro"
Clicca QUI per una versione su

 
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